IL FOGLIO, 28 aprile 2002
http://www.wittgenstein.it/cr/noncompiuta.html
IL FOGLIO, 4 settembre 2003
http://www.wittgenstein.it/cr/noncompiuta.html
A Baghdad come in Bosnia
I neoconservatori, coloro cioè che hanno fornito al Bush post 11
settembre il progetto di esportare la democrazia per sconfiggere il
terrorismo, sembrano meno baldanzosi di prima. C'è la granitica
convinzione di Michael Ledeen e della National Review, ma c'è anche
l'imbarazzo di Paul Wolfowitz che sul Wall Street Journal si è
appellato al sostegno patriottico che meriterebbero le truppe più che a
una lucida analisi della situazione. In un articolo pubblicato dal
Foglio la settimana scorsa, Robert Kagan e William Kristol, avevano
chiesto a Bush una cosa diversa: un maggiore impegno americano, non di
scaricare le responsabilità all'Onu né di bosnizzare l'Iraq.
Bush, ha scritto Andrew Sullivan, "sta tentando di far funzionare
la liberazione dell'Iraq, e sembra che si sia convinto della necessità
di un coinvolgimento internazionale". Secondo il giornalista
inglese, però "sta andando fuori strada", così come sbagliò
quando dichiarò "compiuta" la missione in Iraq: "Sta
dando l'impressione che la crescente violenza di questi giorni sia in
qualche modo un'inversione di tendenza rispetto a quella vittoria,
piuttosto che la continuazione della battaglia".
Interessante l'analisi di Lawrence Kaplan su The New Republic, rivista
neoliberal. Sondaggi e libri di storia alla mano, Kaplan confuta l'idea
secondo cui gli americani cambiano opinione se aumenta il numero delle
vittime. Non è così, spiega. Gli americani non hanno la fobia delle
perdite, ma quella della sconfitta. La vera sfida dei leader americani
non è quella di convincere l'opinione pubblica a mantenere la linea in
Iraq. La sfida è convincere se stessi.
Iraq, Israele e gli ebrei
Giorgio Gomel
http://www.iai.it/pdf/mediterraneo/Doc_Osservatio_pdf/Iraq_israele_Gomel.PDF
Uno stereotipo diffuso fra alcuni opinion makers in Europa è che la guerra all’Iraq abbia servito gli interessi di Israele e dell’ebraismo americano e mondiale e che, quasi in una variante moderna dei Protocolli dei Savi di Sion, sia il potere degli ebrei a guidare la politica estera degli Stati Uniti e quindi, in virtù della supremazia planetaria di questi, le sorti stesse del mondo. Questo preconcetto è falso. Va confutato prima che si radichi negli orientamenti profondi dell’opinione pubblica non solo perché esso può facilmente degenerare in posizioni antisemite, ma perché è oggettivamente falso. Certamente, la deposizione, cattura o morte di Saddam Hussein e il disarmo dell’Iraq sono benefici importanti per Israele. La potenziale minaccia militare irachena sul fronte orientale è dissolta. Un canale di finanziamento del terrore suicida palestinese è reciso. Ma non è affatto certo che il trapianto forzato di democrazia occidentale in un paese arabo abbia successo, né è certo che alla vittoria dell’esercito americano non segua nel tempo un’ulteriore esplosione di radicalismo arabo-islamico volto contro l’Occidente. Né è certo che la sconfitta dell’Iraq dischiuda – se non vi sarà un’azione di pressione energica e concertata in seno al Quartetto fra Europa e Stati Uniti – spiragli di una trattativa fra Israele e Palestina, come avvenne dieci anni fa quando al termine della Guerra del Golfo prima la Conferenza di Madrid, poi la vittoria elettorale di Rabin contro il Likud di Shamir posero le premesse degli accordi di Oslo del 1993. Non resiste a un solido esame critico neppure l’opinione per cui sia stata preponderante l’influenza ebraica nel Congresso americano, in particolare attraverso l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) e il Jewish Institute for National Security Affairs, per giungere al voto quasi unanime in appoggio all’Amministrazione circa l’invasione dell’Iraq. Certamente, l’AIPAC esercita un’influenza importante nel Congresso in favore di Israele, e 2 spesso in sostegno alle posizioni più oltranziste della destra israeliana, ma nel caso dell’Iraq sono stati altri interessi organizzati a spingere potentemente per la guerra: l’industria militare, le compagnie petrolifere, le correnti fondamentaliste cristiane. La terza asserzione che si ritrova nel dibattito circa gli ebrei e la guerra attiene al numero elevato di ebrei nell’intelligentsjia neoconservative, oltreché tra i consiglieri di Bush e i policy makers più influenti nel partito repubblicano e nell’Amministrazione. Questi annoverano alcuni dei principali artefici della strategia della "guerra preventiva" e della dottrina del dominio "unilateralista" degli Stati Uniti. Ricordiamo alcuni dei più noti. Fra i primi, William Kristol1, Charles Krauthammer, Robert Kagan, Daniel Pipes. Fra i secondi, Paul Wolfowitz (Vicesegretario alla Difesa ), Richard Perle (Chairman del Defense Policy Board), Douglas Feith (uno dei Sottosegretari alla Difesa), Elliot Abrams (Direttore per il Medio Oriente del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, già incriminato perché implicato negli anni di Reagan nell’affare Iran-Contras nicaraguensi). Anche qui il giudizio è in parte viziato da una deformazione statistica. Intanto, era preponderante il numero di ebrei nell’Amministrazione Clinton – da Madeleine Albright ai Ministri del Tesoro Rubin e Summers, dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Samuel Berger al Ministro del Lavoro Reich, agli inviati in Medio Oriente Dennis Ross, Aaron Miller, ecc. Secondo, è molto elevato il numero di ebrei fra gli esponenti democratici più "liberal" nel Congresso e nella sinistra intellettuale2. In verità, ambedue i fatti sono epifenomeni di un comune elemento sottostante, cioè, il primato intellettuale che il mondo ebraico esercita nella società civile e nelle istituzioni negli Stai Uniti. Due sono, a mio avviso, invece le questioni veramente rilevanti. 1 William Kristol, di cui è uscito di recente con Lawrence Kaplan, "The War over Iraq: Saddam’s Tyranny and America’s Mission", Encounter, è autore del "Project for the New American Century" – il testo ideologico principale di questa corrente di pensiero. Come Kristol, anche altri sono figli – in senso biologico, non solo culturale – dei primi teorici neoconservative che ebbero grande influenza intellettuale negli anni ’80 nello spingere verso una politica estera più assertiva nei riguardi dell’URSS e del "comunismo" mondiale: Norman Podhoretz, Irving Kristol, Nathan Glazer. Ironicamente, da giovani (negli anni ’40) buona parte di costoro erano ideologicamente trotzkisti. 2 Fra questi, vi sono i 456 firmatari, di cui 125 rabbini, di un appello reso pubblico sul New York Times il 21 marzo scorso dal titolo "Perché gli ebrei dovrebbero opporsi alla guerra all’Iraq". Il messaggio principale era: "Il precetto ebraico à chiaro : persegui la giustizia, ricerca la pace, opera incessantemente per il Tikkun Olam". 3 L’una è se il peso crescente di questi ebrei neoconservative tradisca o precorra uno spostamento a destra dell’ebraismo americano e della sue tradizionali inclinazioni progressiste3. La seconda è se vi siano un’affinità ideologica e un’alleanza politica, al di là di una contingente convergenza di interessi nel favorire la guerra all’Iraq, fra questa corrente di pensiero e la destra nazionalista al potere in Israele. Circa il primo punto è possibile che gli anni a venire – sin dalle elezioni presidenziali del prossimo anno – segnino uno spostamento nel voto degli ebrei americani in favore del partito repubblicano per almeno due motivi : 1) sebbene gli ebrei restino in larga parte legati idealmente ai valori propri dei democratici (tutela delle minoranze, pluralismo religioso, separazione fra stato e chiese, antirazzismo), dal punto di vista sociale essi si vanno integrando sempre più negli strati medio-alti e conformando quindi a interessi di classe e valori conservatori; 2) come riflesso del sostegno americano a Israele e, in particolare, del sostegno dell’Amministrazione Bush a Sharon e al Likud. La novità politica importante risiede dunque, non tanto nel peso degli ebrei neoconservative – in larga parte ebrei del tutto assimilati, silenti circa la loro ebraicità –, quanto nel crescere di una presenza ebraica organizzata nel partito repubblicano, un tempo del tutto minoritaria anche negli anni di Reagan e di Bush padre. Spiccano fra questi alcuni grossi finanziatori quali il gioviale Mel Sembler, oggi ambasciatore americano a Roma, ieri esponente repubblicano nella Florida retta dal fratello di Bush. Circa il secondo punto, è vero e inquietante che si sia cementata un’alleanza ideologicopolitica fra i neoconservative negli Stati Uniti e la destra israeliana. Essi propugnano l’idea che Israele e Stati Uniti debbano muoversi all’unisono e che nel Medio Oriente la cooperazione strategica con Israele sia vitale alle esigenze di sicurezza degli Stati Uniti. Questa visione di una comunanza di interessi è stata ovviamente rafforzata dagli attentati del settembre 2001 e dall’abilità retorica di Sharon nell’equiparare Arafat a Bin Laden, l’Israele assediato dai palestinesi all’America aggredita dal terrore di Al Qaeda. Ma la sua genesi precede l’ondata terroristica recente. Già nel 1996 Richard Perle, Douglas Feith e altri, come consulenti di Netanyahu allora primo ministro di Israele, lo esortavano in un loro rapporto ad abbandonare gli accordi di Oslo e il principio di "territori in cambio di pace" e ad agire per affermare il "Grande Israele" e rimuovere dal potere Saddam Hussein. Più di recente, allorché nel giugno 2002 Bush presentò il suo piano per 3 Ancora nelle elezioni del 2000 Bush ottenne meno del 20 % del voto ebraico. 4 la ripresa delle trattative israelo-palestinesi, che pose le premesse della successiva "roadmap" formulata dal Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia, ONU) e oggi in discussione, non pochi esponenti di associazioni ebraiche americane – religiose e laiche – non ebbero alcuna remora a firmare una petizione al Presidente contro la nascita di uno stato palestinese con la destra repubblicana e cristiano-fondamentalista. L’imperativo della difesa di Israele e, con l’inasprirsi del conflitto con i palestinesi, il sostegno alle posizioni anche più oltranziste e ostili al compromesso del suo governo, hanno spinto associazioni ebraiche di tendenza moderata-conservatrice ad accettare le seduzioni della "Christian Right" e delle sette evangeliche fondamentaliste. Queste sono strumentalmente e provvisoriamente filoisraeliane, ma nel profondo antisemite. Abbracciano l’ideologia estremista del "Grande Israele", predicano l’annessione dei territori occupati e la soggezione permanente dei palestinesi. Come ricorda acutamente Barbara Spinelli (La Stampa, 6.4.2003), Lo Stato di Israele deve esistere e grandemente espandersi affinché siano create le condizioni del Secondo avvento di Gesù: un avvento che comporterà tuttavia la fine dello Stato di Israele, la conversione in massa degli ebrei, e il loro sciogliersi definitivo nel cristianesimo che trionferà all’indomani dell’Armageddon, la finale lotta tra bene e male… Israele è al tempo stesso condizione del ritorno messianico e figura dell’anticristo… Ambedue elette da Dio, la nazione americana e quella israeliana hanno un comune compito di redenzione del mondo, ma alla fine una delle due – la nazione terrena – sarà inghiottita dall’altra, la nazione celeste. A parole Israele è difesa. In realtà viene usata". Quali sono dunque, in questo contesto, le chances effettive che gli Stati Uniti, d’intesa con il Quartetto, impongano a Israele l’accettazione della "roadmap" per la pace e la nascita di uno stato palestinese entro il 2005? Non molte, anche se dopo la guerra all’Iraq i rapporti con il mondo arabo e l’Europa e la necessità di stabilizzare la regione spingeranno Bush in questa direzione. I segnali dei mesi scorsi non sono incoraggianti. La "roadmap" doveva essere resa pubblica nel dicembre 2002. Ma Sharon ottenne in una prima fase che fosse rinviata a dopo le elezioni israeliane, ricevendo così dagli Stati Uniti un appoggio enorme alla sua campagna, poi a dopo la guerra irachena. In questi giorni il governo d’Israele ha chiesto agli americani emendamenti sostanziali al piano. Gli interessi della destra repubblicana e la prospettiva delle elezioni del 2004 indeboliranno la capacità di Bush di premere su Sharon. Eppure, soltanto le pressioni degli Stati Uniti, con il sostegno del resto del mondo e una qualche forma di presenza 5 internazionale - di osservatori oppure di una vera forza multinazionale di pace4 (4) - potranno porre un freno alla violenza, dare avvio allo smantellamento delle colonie ebraiche, condurre a una crisi di governo in Israele con l’uscita dei partiti di estrema destra contrari ad ogni accordo di pace e riportare le parti al tavolo dei negoziati sulla base dei parametri di Clinton del dicembre 2000. Giorgio Gomel 4 In un recente scritto ( "Dopo l’Iraq. Il fronte israeliano", Aspenia, 20, 2003), Shlomo Ben-Ami, Ministro degli esteri nell’ultimo governo Barak, propone che una forza internazionale di peace-keeping agisca sotto l’egida di un vero e proprio mandato internazionale nei Territori.
Le "radici" della guerra in Iraq....
a cura di Simone Cumbo
http://members.tripod.com/~ufocun/00055u.htm
Dopo che George W. Bush diventò presidente, molti di questi uomini ritornarono a ricoprire posizioni di potere nell'ambito della politica estera americana. Per nove mesi, erano rimasti in agguato. Stavano aspettando, per dirla con le parole del documento del PNAC "Rebuilding America's Defenses", un "evento catastrofico e catalizzante, una nuova Pearl Harbor" che avrebbe mobilitato l'opinione pubblica e avrebbe consentito loro di mettere in pratica le loro teorie e i loro piani. L'11 settembre era quello che ci voleva. Condoleezza Rice riunì i membri del Consiglio di Sicurezza Nazionale e chiese loro di "pensare al 'modo di trarre vantaggio da queste opportunità per cambiare alla base la dottrina americana e l'aspetto del mondo sulla scia degli avvenimenti dell'11 settembre". Disse "Penso davvero che questo periodo sia analogo a quello tra il 1945 e il 1947, quando la paura e la paranoia portarono gli Stati Uniti alla Guerra Fredda con l'Unione Sovietica.
January 26, 1998
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le scriviamo perché siamo convinti che l'attuale politica americana nei confronti dell'Iraq non stia funzionando, e che presto potremmo trovarci ad affrontare una minaccia in Medio Oriente più grave di qualsiasi altra dalla fine della guerra fredda. Nel suo prossimo intervento sullo Stato dell'Unione, lei ha l'occasione di tracciare un chiaro e determinato percorso per fronteggiare tale minaccia.
In fede,
Elliott Abrams, Richard L. Armitage, William J. Bennett, Jeffrey Bergner, John Bolton, Paula Dobriansky, Francis Fukuyama, Robert Kagan, Zalmay Khalilzad, William Kristol, Richard Perle, Peter W. Rodman, Donald Rumsfeld, William Schneider, Jr. , Vin Weber, Paul Wolfowitz, R. James Woolsey, Robert B. Zoellick
Nuovi
nazisti?
di
Alberto Chicayban
http://lists.peacelink.it/voce/msg00282.html
Nella sezione Key Findings, il rapporto elenca quattro missioni per le forze armate degli Stati Uniti:
- "difendere i possedimenti nord americani"
- "lottare e vincere guerre multiple e simultanee"
- "realizzare lavori di polizia associati alla manutenzione della sicurezza in regioni critiche"
- "trasformare le forze armate degli Stati Uniti per sfruttare la rivoluzione nel campo militare".
- "Mettersi contro tutto il mondo è, anche dal punto di vista militare, una grande follia!" Hitler lo cacciò via dal suo ufficio. Per alcuni personaggi che la storia insiste ad imporci la lezione storica della Volpe del Deserto è molto difficile da capire.
Dossier Leo Strauss: le radici dell’utopia mondialista
http://www.movisol.org/strauss.htm
[Solidarietà, anno XI n. 2, giugno 2003]
PRIMA PARTE
Il dossier che sta cambiando la storia. Distribuito in centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo, soprattutto negli USA, è stato ripreso dai grandi mezzi d'informazione (una lista parziale in fondo). Sta diventando l’elemento catalitico di una resistenza alla fazione guerrafondaia al potere. Oltre all'articolo introduttivo, riprodotto di seguito, il dossier comprende:
Le "ignobili bugie" dietro la guerra in Iraq: analisi delle giustificazioni assurde di una guerra a cui il gruppo di Cheney si prepara da almeno 12 anni.— Il metodo della menzogna sistematica giustificato dalle teorie di – Leo Strauss.
— L'11 settembre 2001 come fattore "indispensabile" per imporre la politica di "guerra preventiva"
— La politica del "clean break" di Richard Perle per innescare la polveriera mediorientale
— I servizi paralleli: l'unità d'intelligence segreta del Pentagono.
"Rumsfeld come Stranamore II". Un'ampia analisi di Lyndon LaRouche che spiega come mai un gruppo di potere così ristretto, come quello che ha scatenato la guerra in Iraq, riesca a tenere in ostaggio gli USA e il resto del mondo. Messe a fuoco le debolezze ideologiche della popolazione, e non solo quella americana, l'autore pone in risalto l'alternativa rappresentata dai giovani ai quali la generazione attuale non riserva alcun futuro.
Il regno segreto di Leo Strauss.
Squarci sul "come funziona" il mondo accademico creato da Leo Strauss negli USA raccontati da Tony Papert, collaboratore di LaRouche e studioso di Platone.
Alexandre Kojeve e la "violenza rigeneratrice"
Un elemento fondamentale della "scuola" degli utopisti imperiali è rappresentato dal sinarchismo di cui l'esponente centrale è il professore parigino di origine russa Alexandre Kojeve. A lui si rifanno i moderni Robespierre decisi a decapitare ogni forma del "bene comune" dalla vita e dalla cultura politica.
Introduzione al dossier
Secondo la rivista americana Time del 17 luglio 1996, il professore dell’Università di Chicago Leo Strauss (1899-1973) è il filosofo prediletto dei politici di Washington ed è il vero ispiratore della “rivoluzione conservatrice”, allora capitanata da Newt Gingrich nel Congresso americano con il suo programma di austerità fascista, il “Contract with America”.
Dal 1996 a oggi l’influenza di Strauss è diventata sempre più egemone. Tra gli straussiani più in vista c’è il vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz, che ha studiato sotto Allan Bloom, l’alter ego di Strauss all’Università di Chicago. Wolfowitz dirige al Pentagono il partito della guerra, costituito essenzialmente da elementi della burocrazia civile. A lui fa anche riferimento I. Lewis Libby, il capo dello staff del vice presidente Dick Cheney che gli ha affidato un “consiglio di sicurezza ombra” nell’Old Executive Office Building, l’edificio più prossimo alla Casa Bianca.
Saul Bellow riferisce nella sua biografia di Bloom che durante la Tempesta del Deserto del 1991, quando Bush senior respinse la proposta di Wolfowitz e di Cheney di ordinare alle truppe americane di marciare su Baghdad, Wolfowitz se ne lamentò con Bloom in una telefonata privata.
Quest’influenza nefasta è stata recente messa a fuoco da Lyndon LaRouche. Ne ha parlato il 3 marzo nel corso di un trasmissione radiofonica molto seguita, diretta da Jack Stockwell. Il candidato alla presidenza USA ha spiegato in tale occasione che Strauss, insieme a Bertrand Russell e H.G. Wells è tra i maggiori responsabili, sul piano intellettuale, del fatto che gli Stati Uniti stanno ripetendo il tragico errore delle Guerre Peloponnesiache, quando Atene cercò di sottomettere i suoi alleati, grazie ai quali aveva potuto respingere i persiani, e finì con il condurre se stessa e la cultura greca all’autodistruzione, lasciando così spazio all’emergere dell’imperialismo romano.
Nel periodo successivo a quell’intervista, il tema di Leo Strauss è stato ripreso da organi d’informazione in Germania, Francia, Italia e America (vedi scheda sotto).
Il libro di Shardia B. Drury “Leo Strauss e la destra americana”, apparso nel 1997, ci da un’idea della “nidiata” intellettuale di Strauss. Oltre a Paul Wolfowitz vi sono:
Clarence Thomas, giudice della corte suprema
Robert Bork, giudice
William Kristol, editore della rivista “Weekly Standard” a cui fanno riferimento i neo conservatori
William Bennet, ministro dell’Istruzione
William F. Buckley, editore della National Review
Alan Keyes, ex funzionario dell’amministrazione Reagan,
Francis Fukuyama, consigliere di bioetica della Casa Bianca; la sua idea sulla “fine della storia” è di stretta concezione straussiana.
John Ashcroft, Attorney General impegnato ad istituire un regime totalitario giustificandolo con l’“emergenza terrorismo”.
William Galston, ex consigliere dell’amministrazione Clinton per la politica interna e, insieme a Elaine Kamark, autore della piattaforma politica del Democratic Leadership Council, la corrente democratica egemone rappresentata da Joe Liberman.
Dopo la seconda guerra mondiale, tra gli alleati e i protetti di Strauss nel lanciare il movimento neo conservatore si contano Irving Kristol, Norman Podhoretz, Samuel Huntington, Seymour Marin Lipset, Daniel Bell, Jeane Kirkpatrick e James Q. Wilson.
L’impostazione filosofica di Strauss è caratterizzata da un’odio viscerale per il mondo moderno e dalla convinzione che occorra un regime totalitario gestito dai ‘filosofi’. Essi respingono i principi universali della legge naturale ma si considerano governanti supremi e assolutistici, capaci di mentire alle masse strumentalizzandole e spacciano questo come l’insegnamento di Platone sulla “nobile menzogna”. Ritengono la politica e la religione degli strumenti per diffondere i miti necessari a mantenere la popolazione sottomessa. Così, ciò che gli straussiani odiano di più alla fin fine sono proprio gli Stati Uniti, che in pratica considerano una riedizione patetica della “democrazia liberale” della Germania di Weimar.
Nella sua carriera Strauss ha personalmente dato la laurea a 100 studenti e la sua “scuola” è praticamente egemone in gran parte delle facoltà di scienze politiche e di filosofia.
Fuggito dalla Germania nazista perché di origine ebraica, Strauss fece proprie senza imbarazzi le teorie filosofiche e giuridiche alla radice del nazismo proposte da Friederich Nietzsche, da Martin Heidegger e da Carl Schmitt. Alcune biografie recenti di Heidegger pongono in risalto il suo entuasiasmo per Hitler ed il nazismo negli anni in cui fu rettore dell’università di Friburgo, per tutto il tempo in cui il regime fu al potere, e che promosse il revival di Nietzsche. Il presidente dei giuristi nazisti, Carl Schmitt (1888-1985), si premurò personalmente di ottenere per Strauss, nel 1934, una borsa di studio della Fondazione Rockefeller affinché potesse studiare in Francia e in Germania, prima di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti. Nella sua lunga carriera accademica Strauss non ha mai preso le distanze dai suoi autori preferiti: Nietzsche, Heidegger e Schmitt.
Carl Schmitt fu definito dai nazisti “Il giurista principe del Terzo Reich”, grazie al ruolo che ebbe nel sovvertire sistematicamente la costituzione della Repubblica di Weimar a partire dal 1919. Fu infatti consigliere dei governi di Brüning, Von Papen e Hitler. Si schierò contro il sistema costituzionale fondato sugli ideali del liberalismo politico e del diritto dei singoli, ritenendolo impotente e corrotto, e fu lui a proporre il governo per decreto e una temporanea dittatura commissariale presidenziale per “salvare” la costituzione. Fu un grande ammiratore di Benito Mussolini, con il quale ebbe uno scambio di vedute sul Diritto Romano. Riconosceva al Duce il merito di aver instaurato un sistema perfetto, fondato sullo stato autoritario, la chiesa e la libera impresa, e capace di gestire i miti con cui comandare alla volontà popolare.
Nel 1933 Schmitt giustificò giuridicamente la decisione di Hitler di imporre la dittatura dopo l’incendio del Reichstag e poi l’invasione della Polonia come “guerra preventiva”: secondo lui la Germania aveva diritto ad estendere il territorio per la propria sicurezza di fronte al rischio delle orde bolsceviche che volevano invaderla. Il presupposto teorico è che lo stato non è legittimato dal suo scopo morale, ma dal modo in cui reagisce di fronte al “pericolo concreto”. Al nocciolo si individua così il pensiero di Hobbes.
Heinrich Meier, professore della Fondazione Siemens, ha scritto due libri su Schmitt e Strauss, che sono egemoni negli ambienti della destra straussiana in Germania e negli USA. Meier spiega che grazie alla loro collaborazione, le idee di Schmitt sono diventate più congeniali alla “rivelazione” cristiana. Così, dice Meier, nel distinguere i nemici dagli amici si obbedisce alla forza nascosta della fede: il leader obbedisce alla rivelazione divina quando prende la decisione storica su chi è il proprio nemico. Strauss invitò Schmitt a “riconoscere apertamente” questa forza ispiratrice, e da ciò prese le mosse quell’ideologia straussiana che successivamente è sfociata nelle teorizzazioni dello “scontro di civiltà”. Strauss esortò il suo maestro a riconoscere che la “politica” non è soltanto una delle sfere dell’attività umana, ma che è piuttosto l’attività umana principale, conferendole al tempo stesso una dimensione religiosa.
Nel rielaborare il pensiero di Schmitt, Strauss sostiene che la fede in Dio costituisce la base per distinguere gli amici dai nemici e questo consente di preservare la supremazia della politica sulle altre sfere della vita sociale. La fede insegna la contrapposizione tra Dio e l’Anti-Cristo, “ma lascia all’uomo tutto lo spazio d’azione per decidere come e in che modo l’Anti-Cristo appare e come è meglio combatterlo”.
Nel criticare il liberalismo e la modernità Strauss prende di mira lo spettro di una rinuncia alla distinzione tra amici e nemici, una distinzione vantata invece come la salvaguardia della politica e della religione.
L’interpretazione straussiana di Schmitt legittimizza così ogni guerra di religione. Quando una tale definizione della politica è intesa come identità primaria di una società ne consegue che anche i rapporti entro lo stato si definiscono allo stesso modo: un “nemico interno” è chiunque si oppone a ciò che si reputa “la volontà divina”.
[Solidarietà, anno XI n. 2, giugno 2003]
SECONDA PARTE
Sinarchismo: alla radice dell'utopia imperiale
Aldo Moro: tra minacce di golpe militare e golpe tecnocratico sovranazionale.Perché il sinarchismo è "nazi-comunismo". L’esempio messicano.
Proponiamo di seguito l'articolo su Aldo Moro.Aldo Moro: tra minacce di golpe militare e golpe tecnocratico sovranazionale
Rileggendo le lettere di Aldo Moro dalla prigione delle Brigate Rosse, ci si imbatte in un tale Robert Marjolin, il quale si rese protagonista di un intervento di tale gravità che il compianto presidente della DC ritenne di doverne parlare nel famoso memoriale, cosciente che questo sarebbe probabilmente stato il suo testamento politico.
Come spiega l’articolo di Jeff Steinberg in queste pagine, Marjolin fu identificato dai servizi segreti USA, durante la guerra, come una colonna del sinarchismo. Nel 1964, in veste di vicepresidente della Commissione CEE, Marjolin si recò a Roma, dove si stavano svolgendo i negoziati per la formazione del primo governo di centrosinistra, per diffidare dall’adozione del programma di coalizione, impostato sull’idea di “programmazione” e comprendente una serie di riforme tra cui quella urbanistica. L’intervento di Marjolin fu una pesantissima interferenza, ma quel che è peggio è che essa avvenne in coincidenza (e verosimilmente in coordinamento) con il famoso “piano Solo”, la minaccia di un colpo di stato messa in atto dal Presidente della Repubblica Antonio Segni, un avversario della svolta in corso.
Scrivendo il diario di quei giorni, Moro non sa che Marjolin è il principale allievo di Alexandre Kojeve, il più stretto collaboratore transatlantico di Leo Strauss, e membro del movimento sinarchista. Scrive Moro: “Il tentativo di colpo di stato nel ‘64 ebbe certo le caratteristiche esterne di un intervento militare, secondo una determinata pianificazione propria dell’arma dei Carabinieri, ma finì per utilizzare questa strumentazione militare essenzialmente per portare a termine una pesante interferenza politica rivolta a bloccare o almeno fortemente ridimensionare la politica del centro sinistra, ai primi momenti del suo svolgimento. ... Nel frattempo però diventarono preminenti gli sviluppi politici a causa di una lettera diffida mandata al Presidente del Consiglio dal ministro del Tesoro (Emilio Colombo, ndr.) circa gli eccessivi oneri finanziari della politica di centrosinistra e di un intervento nello stesso senso, che aveva sapori d’interferenza, del sig. Marjolin della Comunità Politica (sic) Europea. Mentre si attenuava il significato del golpe in quanto tale, si accentuava la tendenza a diminuire la portata del centrosinistra e a ridurla per asserite ragioni finanziarie, ad una normale politica riformistica”. “Il fatto grave, ripeto, fu politico anche per il fatto dell’interferenza della Comunità Europea nelle cose italiane, attraverso la missione Marjolin”, ribadisce enfaticamente Moro in un’altra pagina del suo memoriale.
Occorre sottolineare che “l’interferenza” non va collocata solo nella vicenda italiana, ma in una situazione di destabilizzazione internazionale avviata con l’assassinio del presidente Kennedy, del presidente dell’ENI Enrico Mattei (entrambi sostenitori del progetto di centro-sinistra, come risulta dai documenti ufficiali) e di una serie di attentati alla vita del presidente Charles De Gaulle che si protrassero fino al 1965, quando la cordata di Marjolin fu spodestata dai vertici della CEE su intervento diretto di De Gaulle. La domanda retorica che si pone a questo punto è quella sull’esistenza di una possibile convergenza tra “l’anonima assassinii”, impegnata nei delitti politici, e i disegni mondialisti di cui Marjolin/Kojeve si fecero promotori in seno alla CEE, come il tentativo di sottrarre le entrate fiscali agli stati nazionali per “centralizzarle” nella Commissione.
Quattordici anni dopo, la mano della sinarchia si intravede ancora una volta, nella brutale reazione al nuovo tentativo riformistico di Moro, stavolta con il PCI. Un personaggio, Michael Ledeen, si insedierà al Viminale nel comitato di crisi istituito da Cossiga per coordinare le ricerche dei brigatisti che tengono prigioniero il Presidente della DC. Altri personaggi, come il musicista Igor Markevic e “l’ultimo dei Caetani”, l’ufficiale dell’intelligence britannico Hubert Howard, entrambi legati alla sinarchia internazionale, svolgono un ruolo decisivo.
Su tutto, l’ombra politica di un Henry Kissinger nemico dichiarato del progetto moroteo. Molti elementi della vicenda Moro sono venuti a galla grazie ad un efficace lavoro d’indagine che è stato svolto dalla Commissione d’inchiesta sulle stragi nella passata legislatura.
Ma già nel settembre 1978 il Partito Operaio Europeo, che rappresentava il movimento di LaRouche in Italia, aveva puntato il dito contro il partito oligarchico, i servizi segreti britannici e lo “snodo Caetani”. Una denuncia niente affatto profetica ma basata sul metodo dell’ipotesi e della verifica storica, la stessa che ci permette di denunciare e isolare i golpisti di Washington come filiazione del partito sinarchista in seno all’oligarchia finanziaria internazionale.
I mezzi d'informazione che hanno parlato del "dossier Leo Strauss"
Il «Dossier Leo Strauss» è stato distribuito negli USA ormai in 800 mila copie ed è stato ampiamente diffuso e tradotto nel resto del mondo.
Diamo di seguito una lista di alcune delle reazioni che ha suscitato:Süddeutsche Zeitung – 5 marzo 2003
“Il partito di Zeus – La combriccola: l’influenza degli straussiani nella politica USA” di Tim B. Mueller
“Il New York Times lo chiamò il padrino del Contract with America del 1994. Per il Times è stato ‘una delle personalità più influenti nella politica americana’ e la New Republic chiama i suoi seguaci nel mondo politico ed accademico ‘una delle prime dieci combriccole del millennio’.”
“La maggior parte dei neo-conservatori sono stati studenti, o studenti degli studenti di Leo Strauss. Altri hanno studiato sotto straussiani famosi come Harvey Mansfeld e Allan Bloom”.
Mueller descrive l’influenza degli straussiani dell’American Enterprise Institute, “dove Bush ha parlato l’altro giorno”. Mueller conclude che “Non si può comprendere la politica americana oggi senza conoscere il retroterra straussiano dei suoi principali pensatori neo-conservatori”. Spiega inoltre che lo straussismo è una mistura di idee “elitarie” con uno strato di religiosita attorno al “patriottismo”, che aspira ad un ritorno all’“interventismo democratico di Teddy Roosevelt”. Con “elitismo” Strauss intendeva dire che la verità è riservata solo a pochi, “i filosofi”.
Libération – 10 marzo 2003
Titolo: “Quegli intellettuali straussiani che riempiono i ranghi dei falchi americani”.
“Negli Stati Uniti non sono i militari che vogliono la guerra. Sono gli intellettuali. Il principale ‘falco’ nell’amministrazione Bush è Paul Wolfowitz ... è il più famoso ... ha studiato sotto Allan Bloom .... e il matematico Albert Wolhstetter, il padre della dottrina nucleare americana. [“il dott. Stranamore” – NdR]
“Non è raro vedere come i più bellicosi sono anche i letterati più raffinati. Uno è Victor David Hanson ... specialista dell’antichità greca ... e Donald Kagan professore di Yale un’altro emiente storico dell’antichità e padre di uno dei più prolifici ideologhi neo conservatori, Robert Kagan...
“Leo Strauss ... si ribellava contro la modernità che secondo lui fu la causa dell’emergenza dello stalinismo e del nazismo”.
Le Monde – 20 marzo 2003
Cita George W. Bush all'American Enterprise Institute, il “tempio” dei neo-conservatori: “Voi rappresentate alcuni dei migliori cervelli del paese” tanto che “il mio governo si avvale di una ventina di voi”.
Il quotidiano francese tornava sull'argomento il 15 aprile con un articolo intitolato “Lo stratega e il filosofo”: “I neo-conservatori non debbono essere confusi con i fondamentalisti cristiani che si trovano attorno a Bush”, provengono da una certa sinistra di New York, dalla East Coast, come anche dalla California.
“Ma, spiega Pierre Hassner, ciò che c’è di singolare nell’amministrazione Bush è di essere riuscita a fondere queste due correnti. George W. Bush induce neoconservatori e fondamentalisti cristiani a fare causa comune. Bush ... ha concepito un cocktail ideologico sorprendente -- ed esplosivo -- maritando Wofowitz e Ashcroft ... due mondi opposti”.
Il New York Times, 4 maggio 2003
“Leo-Cons, un'eredità classica: i nuovi imperialisti”. (ripreso da Gianni Riotta sul Corriere della Sera del 7 maggio).
“L'Amministrazione bush è piena di straussiani”, scrive James Atlas in un ampio articolo di prima pagina del magazine domenicale «Week in Review» del quotidiano newyorkese, corredato da una ricca galleria fotografica degli straussiani, con Wolfowitz nei panni del gladiatore in copertina. "Hanno penetrato la cultura ad ogni livello, dalle università al Pentagono, dirigono e scrivono nelle pubblicazioni grandi e piccole. Finanziano centri studi ... e dispongono di ciò che serve per mandare in onda il loro pensiero ... Sono i neo-conservatori, un nome onnicomprensivo di gruppi disparati ... che intellettualmente si rifanno ... a Leo Strauss.”
Il New Yorker (su Internet) Ha pubblicato il 5 maggio un dossier di Seymour Hersh che riprendeva le informazioni della scheda dell’EIR sull’unità d’intelligence al Pentagono. Questi servizi paralleli sono uno dei fianchi più vulnerabili per un probabile "Straussgate".
• Una calunnia molto articolata contro LaRouche e è apparsa il 9 giugno sul Wall Street Journal, firmata da Robert L. Bartley, ex direttore del Wall Street Journal. Bartley accusa il Financial Times e il New Yorker di fare causa comune con LaRouche contro la politica dell’amministrazione Bush, mentre liquida ogni critica alla scuola di pensiero straussiana come “antisemitismo”.
• Qualcosa nella stessa direzione è stato scritto da Bret Stephens, direttore del Jerusalem Post.
• Il principale giornale elvetico, Neue Zuercher Zeitung del 13 giugno, dedicava ampio spazio ad un articolo intitolato: “Tradizioni e cospirazioni in America: Leo Strauss, LaRouche e la cabala neo-conservatrice”.
L’autore, Hans-Rudolf Kamer, è stato corrispondente di Washington. Si esibisce in varie disquisizioni sui conservatori più o meno “doc” per poi dire che gente come Hillary Clinton fa subito a prendersela con le cospirazioni di destra, quando il marito rischiava l’impeachment. Ma poi ci sono quelli come LaRouche, che ha pubblicato il suo dossier sugli straussiani proprio qualche settimana prima degli articoli apparsi sul New York Times e sul New Yorker. LaRouche parla del “fascismo nicciano di Leo Strauss” e delle “utopie mondialiste” di Russell e Wells, e afferma che l’11 settembre è un nuovo “incendio del Reichstag”. Su LaRouche Kamer dice che è un misto di Kant e anti-semitismo e che calunnia chi gli viene a tiro. Strauss per Kamer non è un fascista ma un “buon democratico”.
• Numerosi gli articoli sulla stampa araba. Al Arab International, ad esempio, ha fatto pubblicità al dossier di LaRouche nell’edizione del 3 luglio con un articolo intitolato: “Il crollo del sistema finanziario internazionale è il motivo dei continui attacchi contro LaRouche” in cui denuncia la campagna di personaggi come Bartley (vedi sopra).
• Il Glasgow Herald, uno dei principali quotidiani inglesi, ha menzionato il ruolo di Lyndon LaRouche nel denunciare “la cabala di Leo Strauss” dietro la politica guerrafondaia promossa da forze egemoniche nell’amministrazione Bush. L’articolo, apparso nell’edizione del 6 giugno, è firmato dal caporedattore politico del giornale Alf Young. Young passa in rassegna gli aspetti salienti della controversia sulle “armi di distruzione di massa irachene” che infuria in Inghilterra e negli USA, i quali gettano luce su “come funziona l’amministrazione Bush e perché ha deciso in primo luogo di lanciare una guerra contro l Iraq”. Al centro delle “motivazioni profonde” c’è il ruolo “di un emigrato tedesco di origine ebraica e filosofo della politica, Leo Strauss ... i suoi insegnamenti e le sue convinzioni hanno influenzato una schiera crescente di discepoli, alcuni dei quali, come il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz, ricoprono funzioni cruciali nell’amministrazione Bush. La natura di quelle convinzioni inequivocabilmente lascia intendere come e perché la Casa Bianca possa aver scelto di invadere l’Iraq, usando la minaccia delle armi di distruzione di massa di Saddam come semplice pretesto. L’eredità di Strauss fornisce una forte ispirazione intellettuale ai neo conservatori attorno a Bush, che si stanno apertamente comportando come una cabala”. Dopo aver riferito alcune osservazioni della studiosa Shadia Drury su Leo Strauss, Young scrive che “idee di questo tipo hanno condotto qualcuno in America a bollare Strauss come fascista ... Strauss sosteneva che per sopravvivere le nazioni debbono combattere. La pace finisce per condurre alla decadenza. La guerra perpetua, e non la pace perpetua, è la cosa appropriata ... La prof.ssa Drury suggerisce tra l’altro che nel pensiero di Strauss ‘dove non esiste una minaccia esterna occorre fabbricarsela’. Questo ci riporta dritti alla razionalizzazione per invadere l’Iraq e rovesciare Saddam Hussein. Oltre a Wolfowitz, tra gli altri discepoli di Strauss nell’amministrazione Bush ci sono Abram Shulsky, direttore della pianificazione speciale nel dipartimento della Difesa, Doug Feith, assistente del segretario della Difesa con responsabilità per la politica, Steve Cambone, capo dell’ente interno per l’intelligence del Pentagono e Richard Perle, commentatore televisivo che frequentemente appare alla BBC e che recentemente si è dovuto dimettere dal ruolo di consulente dello stesso ministero in quanto avrebbe personalmente approfittato dall’influenza esercitata sui vertici di Washington. “Adesso sta venendo a galla la storia dell’influenza della cabala straussiana nel cuore della politica estera e di difesa degli USA. Nelle ultime settimane, dopo le denunce da parte del candidato presidenziale minore Lyndon LaRouche, con un dossier intitolato “I figli di Satana”, articoli sull’argomento sono apparsi sul New York Times, sul New Yorker e sul Boston Globe. Hanno anche raggiunto le pagine di Le Monde”. E, occorre aggiungere, anche del Corriere della Sera.
• Il vice ministro della Difesa Paul Wolfowitz e altri “neo-conservatori” nel governo di Bush “sono sulle difensive”, ha scritto Michael Hirsh in un ampio servizio apparso il 16 giugno su Newsweek. Dopo aver presentato Wolfowitz come il principale “intellettuale dei falchi”, responsabile della guerra contro “stati sponsor del terrorismo”, Hirsh ha scritto: “Adesso il vice ministro alla difesa e i suoi amici neoconservatori sono sulle difensive. Si scontrano con critici sempre più numerosi a Capitol Hill e nel mondo mentre la credibilità dell’amministrazione Bush – e i suoi presupposti – sono messi alla prova come non mai”. “I neocons vengono caratterizzati come grupies intellettuali che venerano Leo Strauss ... Tanto che qualcuno, come Perle e Kagan, dice di non aver nulla a che vedere con Strauss, mentre Wolfowitz ridicolizza l’idea che lui sia uno straussiano ... I neo-cons, molti dei quali sono ebrei, sono talvolta anche caricaturizzati malevolmente per fare da spalla al partito Likud, la destra israeliana, anche da personaggi affermati in ambiente repubblicano”.
• Una delle prese di posizione più nette è stata pubblicata sul Die Zeit dallo storico Heinrich August Winkler: “Se il potere detta legge – Una rivoluzione conservatrice minaccia l’eredità storica dell’America – adesso l’Europa deve schierarsi a difesa dei valori occidentali ... L’America vivendo ciò che già capitò in Germania, diversi decenni or sono? una rivoluzione conservatrice? Così fu chiamato, allora, ed è chiamato oggi, il movimento degli intellettuali di destra che nel periodo successivo al 1930 lanciarono l’assalto contro lo spirito del tempo liberale. Uno dei loro rappresentanti più influenti fu l’esperto di diritto dello stato Carl Schmitt. Nel 1927 Schmitt presentò uno dei suoi saggi più famosi, “Il significato della politica”. La distinzione politica specifica è quella tra amici e nemici, che è la tesi di fondo, che fu presto discussa appassionatamente. Tra coloro che approfondirono maggiormente Schmitt ci fu il filosofo tedesco Leo Strauss. Non era contro il dogma degli amici e nemici, ma era contro la critica di Schmitt verso il liberalismo perché condotta nell’ambito del liberalismo stesso e quindi non radicale abbastanza. Tale critica poteva essere perfezionata soltanto se fosse riuscita a conquistare un orizzonte oltre il liberalismo, disse ... Dal 1937 fino alla sua scomparsa nel 1973, Strauss insegnò negli USA, principalmente alla University of Chicago. Diventò il centro di una scuola, quella dei neo-conservatori, che sotto Bush il Giovane ha trovato ciò che Carl Schmitt aveva cercato invano: l’accesso a colui che detiene il potere”. “Naturalmente i neo-conservatori americani non sono semplicemente una copia della Rivoluzione Conservatrice tedesca”, scrive ancora Winkler, ma “nel loro pensiero su amici/nemici sono ad ogni buon diritto seguaci di Carl Schmitt”. L’influenza straussiana si manifesta nella dottrina della guerra preventiva, che rappresenta “uno strappo rivoluzionario con la legge internazionale (a sua volta definita principalmente dall’America)”. Winkler incoraggia gli europei a sviluppare una propria alternativa politica che sia in grado di onorare proprio quei valori che i neo-cons statunitensi hanno sacrificato. Ma quest’alternativa, sostiene Winkler, dev’essere molto di più dell’attuale UE.
• La studiosa Shadia Drury, che ha pubblicato diversi libri sul mondo accademico di Leo Strauss, ha affidato i suoi commenti alla International Press News Service: “Strauss non era né un liberal né un democratico. [Per Strauss] l’inganno continuo dei cittadini da parte di chi è al potere è essenziale perché essi hanno bisogno di una guida, di governanti forti che dicano loro quale sia la cosa migliore”. Nel fare la distinzione tra Platone e Strauss, la Drury sostiene che per Platone i governanti debbono essere persone con una spiccata moralità, mentre Strauss dice che “sono idonei al governo coloro che si rendono conto che non c’è moralità e che c’è un solo diritto naturale, il diritto del superiore a comandare sull’inferiore ... ci vuole una popolazione manipolabile come la creta”. E ancora, Strauss “sosteneva che se non esiste la minaccia dall’esterno occorrerà allora fabbricarsela ... Secondo Strauss occorre combattere sempre [per sopravvivere]. In tal senso si rifà decisamente a Sparta. La pace conduce alla decadenza. La guerra perpetua, e non la pace perpetua, è ciò in cui credono gli straussiani”. Questo è ciò che anima gli straussiani di Washington nel perseguire “una politica estera aggressiva, belligerante”. Drury accusa l’amministrazione Bush di “infischiarsene del liberalismo e della democrazia, anche se conquista il mondo nel nome del liberalismo e della democrazia”.
• Il principale quotidiano tedesco, Frankfurter Allgemeine Zeitung ha dedicato un articolo all’argomento nell’edizione del 23 giugno, in una recensione dell’edizione tedesca del libro di Harald Bluhm “L’ordine degli ordini: la filosofia politica di Leo Strauss”. Si spiega che il libro cerca di distinguere tra Leo Strauss e il suo noto maestro, il giurista nazista Carl Schmitt. Ma Bluhm è costretto a riconoscere il marchio di Strauss in tutta l’attuale politica “neo-cons” imperante in America, e che con la sua politica della “nobile menzogna” Strauss è riuscito là dove gli ideologhi nazisti come Nietzsche e Heidegger fallirono, mantenendo una ferrea separazione tra ciò che si rifila al pubblico e le trame degli aderenti alla setta straussiana, o i circoli elitari, come dice il FAZ, che in precedenza aveva già toccato l’argomento.
• In Messico Alfredo Jalife-Rahme ha rilanciato gli attacchi contro Leo Strauss nei suoi articoli su La Jornada e El Financiero, suscitando vivaci reazioni in ambienti sionisti.
• In Colombia le critiche agli straussiani sono state riprese da Eduardo Pizarro Leongomez su El Tiempo.
LA DESTRA USA. I teorici della guerra preventiva che tengono in pugno Bush
di Federico Rampini
(la Repubblica del 07/04/2003)
http://www.lernesto.it/strutture/articolo.asp?codart=836
La tribù dei neoconservatori USA
http://www.panorama.it/mondo/americhe/articolo/ix1-A020001018978
di Marco De Martino
Chi sono e da dove vengono
http://www.lernesto.it/strutture/articolo.asp?codart=784
di Angela Pascucci
(il manifesto del 31/03/2003)
Perle, Wolfowitz, Leeden, Kristol, Sikorsk, l'ala pensante dei neo-conservatori Usa
Tutti gli uomini del presidente
Tom Barry e Jim Lobe*
http://members.xoom.virgilio.it/infocontro/SocFor2003/NoWar468.htm
Liberazione 11 maggio 2003
Nella primavera del 1992, il New York Times pubblicò il testo di un documento riservato: un memorandum, scritto poco dopo la fine della guerra del Golfo da due funzionari politici relativamente oscuri del personale civile del Pentagono. Il progetto auspicava la supremazia militare statunitense sull’Eurasia, nonché la prevenzione della nascita di qualunque potenza in grado di divenire ostile, con tanto di guerra preventiva contro gli stati sospettati di procurarsi armi di distruzione di massa. Vi si presagiva un mondo in cui l’intervento militare statunitense oltreoceano sarebbe diventato "una caratteristica costante", senza neanche citare l’Onu. Esso occupava un posto di primo piano nel cuore e nella mente dei suoi due autori, Paul Wolfowitz e I.Lewis "Scooter" Libby, ma anche del loro capo, allora al Pentagono, Dick Cheney. Dieci anni dopo, la teoria si è tradotta in pratica, a seguito del catastrofico attentato terroristico dell’11 settembre. Ma a quel punto, Dick Cheney era già diventato il più potente vicepresidente della storia degli Stati Uniti, e i due autori del memorandum, il sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz e il capo di gabinetto di Cheney, Lewis Libby, erano ormai assurti ad un ruolo centrale nell’elaborazione della politica estera dell’Amministrazione Bush. Questi personaggi, insieme al capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, hanno guidato una coalizione di forze che è riuscita con successo ad elaborare quella che l’ex ambasciatore all’Onu, Richard Holbrooke, ha recentemente definito «una rottura radicale con 55 anni di tradizione bipartisan» nella politica estera degli Stati Uniti. (...)
Nell’elaborare questa rottura radicale nella politica estera statunitense, Wolfowitz, Rumsfeld e Cheney si sono basati su alcune think tank ed associazioni i cui iscritti hanno prestato servizio nei consigli di amministrazione delle stesse aziende e hanno origini comuni nelle organizzazioni di destra e neoconservatrici degli anni ’70. Organizzazioni come Project for a New American Century (Pnac) e il Center for Security Policy (Csp), nonché l’American Enterprise Institute (Aei) hanno fornito all’Amministrazione un afflusso ininterrotto di consulenze in materia politica e di uomini – essendo quasi tutti di sesso maschile – da mettere al timone dello Stato. Questi uomini non sono affatto nuove reclute nel quadro dell’élite della politica estera, ma si sono fatti le ossa occupandosi dei dibattiti più accesi degli ultimi trent’anni in materia di politica estera. Il loro motto era "pace attraverso la forza" ed erano assai orgogliosi delle loro credenziali in quanto anticomunisti militanti e paladini della potenza bellica statunitense. Fino ad oggi, le loro esperienze più significative avevano avuto luogo durante il primo mandato di Reagan, quando la maggioranza di loro deteneva elevate cariche istituzionali. Ma oggi, in un mondo senza più l’Unione Sovietica, le loro ambizioni sono notevolmente aumentate.
Come si nota dal memorandum, i neoconservatori intravidero per la prima volta la loro opportunità nel "momento unipolare" che seguì alla guerra del Golfo, ma furono ostacolati dalla "spaccatura tra i conservatori" avvenuta dopo il crollo dell’Unione Sovietica, per non parlare del cauto realismo della stessa Amministrazione di Bush padre. Perciò, gli anni ’90 segnarono un periodo di profonda frustrazione per questi uomini, che non provavano altro che disprezzo per i discorsi alla moda che pronunciava Clinton su problematiche transnazionali come il mutamento climatico, l’Aids, l’intervento umanitario, il peacekeeping, la prevenzione dei conflitti, gli standard sociali ed ambientali per l’economia globale e la creazione di nuovi meccanismi multilaterali come la Corte Penale Internazionale (ICC). In questi obiettivi di carattere transnazionale e in queste azioni multilaterali, i neoconservatori non ravvisavano altro se non un limite alla libertà d’azione di Washington e deviazioni rispetto alla vera missione, che consisteva a loro avviso nell’individuare ed affrontare potenziali rivali in materia militare per la conquista della supremazia. Per i neoconservatori, la politica estera americana nell’era Clinton, che talora definivano sprezzantemente "balle globali", era pericolosamente miope. Al tempo stesso, erano allarmati dalla linea fortemente isolazionista di molti dei repubblicani che avevano ottenuto la maggioranza al Congresso nelle elezioni di medio termine del 1994. Pur plaudendo al disprezzo di questi nuovi venuti nei confronti dell’Onu e di altri organismi multilaterali, non nascondevano la propria ansia per la crescente opposizione da parte repubblicana a qualunque forma di impegno militare all’estero, specialmente in zone come i Balcani, da loro considerati vitali per gli interessi nazionali statunitensi.
Il "Nuovo secolo americano"
Nel 1997, un gruppo di figure di spicco tra i neoconservatori, social-conservatori e rappresentanti del "complesso militarindustriale" (secondo la definizione di Eisenhower) si riunì per dar vita ad un’organizzazione chiamata Project for a New American Century (Progetto per un nuovo secolo americano).
I conservatori non erano riusciti a "proporre con fiducia una visione strategica del ruolo dell’America nel mondo", lamentava l’organizzazione nella propria dichiarazione di intenti. "Ci proponiamo di invertire questa tendenza e raccogliere consensi per la leadership globale statunitense".
Tra i venticinque firmatari figuravano Wolfowitz, Libby, Rumsfeld, Cheney, Elliott Abrams, Zalmay Khalilzad ed altri nomi famosi della destra. Ben lungi dall’essere una think tank del calibro dell’Heritage Foundation o dell’Aei, lo Pnac è di fatto un’associazione che emana comunicati in occasioni specifiche, spesso sotto forma di lettere aperte al Presidente. Fondato dagli opinionisti del settimanale Weekly Standard, William Kristol e Robert Kagan, lo Pnac rappresenta la più recente incarnazione di una serie di associazioni a maggioranza neoconservatrice come la Coalition for a Democratic Majority (Cdm) e il Committee on the Present Danger (Cpd). Negli anni ’70, queste associazioni ebbero un ruolo di primo piano nel compattare svariate anime della destra intorno ad una comune politica estera e nell’organizzare campagne mediatiche molto sofisticate.
I bersagli principali, all’epoca, erano Jimmy Carter e la distensione e gli accordi con l’Unione Sovietica per il controllo degli armamenti. Queste associazioni diedero fondo al loro gusto per lo scontro ideologico e politico - per esempio, lo scudo stellare, le crociate anticomuniste in America Centrale, Africa meridionale ed Afghanistan, nonché la creazione di un’"alleanza strategica" con Israele. Insomma, emarginate sotto Bush padre e Clinton, le stesse organizzazioni (in molti casi, le stesse persone) che avevano ricoperto cariche nell’Amministrazione Reagan e che sarebbero tornate alla ribalta con Bush figlio, per gran parte degli anni ’90 cercarono di ricostituire una nuova coalizione analoga a quella che tanta influenza aveva avuto nel corso del primo mandato di Reagan.
In un saggio comparso nel 1996 su Foreign Affairs, dal titolo "Verso una politica estera neo-reaganania", i direttori dello Pnac, Robert Kagan e William Kristol, segnalavano che la destra stava preparando una nuova agenda in materia di politica estera, in base alla quale si sarebbe approfittato del "momento unipolare" per estenderlo a tempo indeterminato nel secolo successivo. Durante le presidenziali del 2000, Kagan e Kristol curarono Present Dangers:Crisis and Opportunities in American Foreign and Defense Policy [Pericoli attuali: crisi ed opportunità per la politica estera e di difesa americana], un libro dello PNAC contenente capitoli scritti da molti dei principali teorici e studiosi neoconservatori, tra cui Richard Perle, Reuel Marc Gerecht, Peter Rodman, Elliott Abrams, Fredrick Kagan, William Bennett e Paul Wolfowitz. Il volume (che esortava ad una politica all’insegna del "cambiamento di regime" in Iraq, Cina, Corea del Nord ed Iran, caldeggiava il mantenimento della "supremazia americana", raccomandava la costruzione di sistemi di difesa missilistica a livello globale e l’allontanamento di Washington dai trattati per il controllo degli armamenti, oltre a prendere posizione in favore del Likud), è stato presentato come un modello per la nuova amministrazione repubblicana. Osservando quanto l’amministrazione Bush abbia attinto a questi programmi e fino a che punto abbia inserito i loro autori tra le "menti" della sua politica estera, si può valutare il successo dello Pnac, un’associazione che non ha ricevuto alcuna attenzione durante la campagna elettorale e che, malgrado continui a contare molto, rimane ancora nell’ombra nel dibattito politico.
Come i loro predecessori venticinque anni fa, i membri dello Pnac alla fine degli anni Novanta sono riusciti a riunire importanti personalità della destra, compresi uomini della destra cristiana come Gary Bauer ed altri social-conservatori come William Bennett, sotto l’egida della loro visione imperiale della supremazia statunitense. Non si tratta di un successo di poco conto in quanto, negli anni Ottanta e primi anni Novanta, la destra cristiana si interessava assai più di problematiche morali e culturali che di politica estera. Inoltre, queste figure erano state attratte dal "candidato indipendente" di destra Pat Buchanan, che aderiva ai "valori tradizionali", ma era anche fortemente contrario alla guerra del Golfo e lamentava da tempo la deriva imperiale e neoconservatrice del partito repubblicano.
Il nesso tra strateghi della Difesa e industria militare trova la sua massima espressione nell’associazione di destra chiamata Center for Security Policy (Centro per la politica di sicurezza), che ha stretti collegamenti sia con le aziende con contratti di appalto nel settore della Difesa. Il direttore del Centro, Frank Gaffney, uno dei primi firmatari del documento dello Pnac nel 1997, si rallegra che i principi della "pace attraverso la forza" perorati dalla sua associazione abbiano ritrovato posto nel governo americano. Come nell’era Reagan, quando molti degli attuali iscritti al Centro dirigevano la politica militare statunitense, l’attuale Amministrazione conta tra le sue fila un gran numero di membri del Consiglio consultivo del Center for Security Policy. Uno tra i primi consiglieri di amministrazione del Centro è Dick Cheney, mentre il Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, è stato insignito del premio "Keeper of the Flame" rilasciato dal Centro. Era dagli anni ’70 che i neoconservatori analizzavano le connessioni globale-locale della "guerra culturale". Secondo la destra cristiana, i valori centrali americani sarebbero stati attaccati da un’élite culturale liberal che aderiva ad un umanesimo laico e al relativismo etico. Per i neoconservatori, tuttavia, la guerra culturale assumeva una dimensione internazionale che minacciava tutta la cultura giudaico-cristiana. Una delle prime associazioni a prendere questa posizione fu Ethics and Public Policy Center (Centro per l’etica e la politica), costituito nel 1976 "per chiarire e rafforzare il legame tra la tradizione morale giudaico- cristiana e il dibattito pubblico politico sulla politica interna ed estera". Ethics Public Policy Center, di cui Elliott Abrams è stato membro negli anni ’90, prima di entrare a far parte dell’Amministrazione Bush, analizzava le radici morali comuni (e le preoccupazioni comuni) che i conservatori ebrei e cattolici condividevano con la destra cristiana. Da molto tempo all’ordine del giorno nella politica statunitense, l’idea della supremazia culturale americana e della necessità di difenderla dalle crescenti insidie internazionali era ormai, alla fine degli anni ’90, un tema di spicco nel dibattito politico in corso negli Stati Uniti. Lo storico neoconservatore Samuel Huntington ha fornito una copertura teorica a questa idea paranoica della supremazia culturale nella sua nota opera intitolata Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.
Uno sguardo d’insieme
Come durante l’Amministrazione Reagan, le "think tanks" di destra rivestono un ruolo chiave nella strutturazione del nuovo quadro politico. Particolarmente importante si rivela l’American Enterprise Institute (Aei), che ha in Richard Perle il suo membro di spicco. Perle, un sostenitore dello Pnac, ha contribuito alla realizzazione del Center for Security Policy e del Jewish Institute for National Security (Junsa), la cui rilevanza è in continua crescita. Nel corso degli anni, l’Aei si è schierato in prima linea nel chiedere attacchi militari preventivi contro gli "stati canaglia" e ha denunciato come "distensione" tutti gli sforzi condotti da Washington e dai suoi alleati europei per "dialogare" con la Corea del Nord, l’Iran o l’Iraq. L’Amministrazione Bush ha di fatto abbracciato tutte le posizioni politiche sostenute dall’AEI per il Medio Oriente. L’analisi politica dell’AEI – fatta propria dall’Amministrazione Bush – è percorsa dalla profonda fiducia nella intrinseca rettitudine e nella missione redentrice negli Stati Uniti, dalla critica contro la codardia morale dei "liberal" e delle "élite europee", dall’imperativo del sostegno a Israele contro l’"odio implacabile" dei musulmani e dalla convinzione del primato del potere militare, in una visione del mondo che ricorda da vicino quella di Hobbes.
Sebbene non sia ancora integrata nella retorica ufficiale, l’idea dell’AEI per cui un conflitto con la Cina sarebbe inevitabile è sostenuta da diversi "falchi" all’interno dell’Amministrazione. Negli editoriali apparsi sulle pagine del settimanale Weekly Standard (pubblicato da William Kristol, co-fondatore dello Pnac), dal Wall Street Journal, dal National Review, dal Commentary Magazine, dal Washington Times così come sulle colonne delle agenzie di stampa nazionali scritte da William Safire, Michael Kelly e Charles Krauthammer, il Dipartimento di Stato (e in particolare la sezione Vicino Oriente) ha subito continue critiche. Ma queste nuove figure intransigenti in materia di politica estera si sono fatte strada anche all’interno del Dipartimento di Stato.
Nonostante le obiezioni di Powell, Bush ha nominato John Bolton, un sostenitore ad oltranza dell’unilateralismo ed ex vicepresidente dell’AEI, come sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti e per la sicurezza internazionale. La maggioranza dei politici di destra di orientamento neoconservatore si è concentrata sulla necessità che l’America imponga il suo potere militare e diplomatico. In netto contrasto con quanto accadeva nell’era Clinton, i teorici neoconservatori, d’accordo con i "falchi", hanno messo in secondo piano il dibattito pubblico sulla globalizzazione. Anziché sugli standard ambientali e sociali della globalizzazione, i riflettori dell’economia sono infatti puntati sugli interessi della sicurezza nazionale americana, in particolare per quanto riguarda le risorse energetiche, e quindi sulla prosecuzione della supremazia economica statunitense. Questa ristretta cerchia di teorici, ideologi ed attivisti di destra, riuniti nelle "think tanks", nelle associazioni e nei nuovi media, ha preso possesso della politica estera e militare Usa. Il problema non è tanto nel fatto che questo cambiamento in politica estera sia stato concepito da una ristretta élite – la politica estera è da sempre appannaggio delle élite conservatrici e liberal – quanto piuttosto nelle conseguenze di questa svolta a destra.
Una nuova visione della politica estera per far fronte alla nuova realtà globale era necessaria. Ma è proprio questa dimostrazione della supremazia americana a sostanziare quella strategia di grandezza in grado di servire al meglio gli interessi nazionali e la sicurezza statunitensi? Alla fine, l’elettorato americano dovrà decidere se far proseguire o meno questa dimostrazione di superiorità e potenza. Saremo noi americani a decidere se adesso ci sentiamo più sicuri, se i nostri interessi economici e morali sono meglio rappresentati e se una politica estera basata sull’estensione della supremazia Usa ci rende fieri di essere americani.
Foreign Policy in Focus (www.fpif.org)
* Tom Barry è analista politico dell’Interhemispheric Resource Center e codirettore di Foreign Policy in Focus.Jim Lobe collabora spesso con Foreign Policy in Focus e con Inter Press Service.
I neoconservatori criticano Bush: svegliati
by dal Foglio di oggi Tuesday August 26, 2003 at 07:56 PM
....perfino loro cominciono a riconoscere il fallimento dell'iraq
Robert Kagan e William Kristol sul Weekly Standard
E’ per questo che è così sconcertante che finora
l’Amministrazione Bush abbia fallito nell’impegnare risorse nella
ricostruzione dell’Iraq proporzionate a quest’altissima posta in gioco. Di
certo gli sforzi americani in Iraq dalla fine della guerra non sono stati un
fallimento. E considerando quello che sarebbe potuto andare storto – e che così
tanti critici avevano predetto sarebbe andato storto – il risultato è stato
in molti versi ammirevole. L’Iraq non è sprofondato in violenze
inter-religiose o inter-etniche. Ci sono cibo e acqua. Gli ospedali ci sono e
funzionano. Il mondo arabo e quello musulmano non sono scoppiati creando caos o
rabbia, come molti dei nostri amici europei avevano fiduciosamente predetto.
Ma l’assenza di un catastrofico fallimento, sfortunatamente non è indizio di
un imminente successo. Come hanno raccontato molti rispettati analisti che sono
stati in Iraq e come hanno dimostrato recenti e terribili eventi, c’è molto
da preoccuparsi.
Manca un livello di sicurezza minimo per gli iracheni, per le forze della
coalizione e per gli altri lavoratori internazionali in Iraq. I continui tagli
di corrente elettrica attraverso gran parte del paese hanno danneggiato la
reputazione degli Stati Uniti come potenza occupante responsabile, e hanno
portato molti iracheni a dubitare delle intenzioni americane.
Le continue uccisioni e i sabotaggi delle infrastrutture
pubbliche a opera di forze saddamite e, può darsi, di terroristi entrati nel
paese dalla vicina Siria e dall’Iran, minacciano di destabilizzare la debole
pace che viene mantenuta in Iraq dalla fine della guerra. In breve, mentre è in
realtà possibile che, con un po’ di fortuna, gli Stati Uniti possano
cavarsela e avere successo in Iraq nei prossimi mesi, il pericolo è che le
risorse che l’Amministrazione ora sta consacrando all’Iraq non siano
sufficienti, e che la velocità con cui queste vengono dispiegate non sia
abbastanza elevata. Questi difetti, se non vengono corretti in fretta,
potrebbero con il tempo portare al disastro. Vengono alla luce tre questioni.
Dove sono le truppe? E’ dolorosamente ovvio che ci sono troppo poche truppe
americane che operano in Iraq. Ufficiali superiori dell’esercito hanno
informalmente suggerito che abbiamo bisogno di due divisioni in più. La
questione è semplice, ora ci sono troppo pochi buoni a caccia dei cattivi –
da qui i continui sabotaggi. Ci sono troppe poche forze a pattugliare i confini
siriani e iraniani per prevenire le infiltrazioni dei terroristi internazionali
che cercano di aprire un nuovo fronte contro gli Stati Uniti in Iraq. Ci sono
troppe poche forze a proteggere infrastrutture vitali ed edifici pubblici. E, al
contrario di quanto qualcuno afferma, più truppe non significa avere più
perdite. Più truppe significa avere meno perdite – sia americane, sia
irachene.
La vera brutta notizia è che il Pentagono sta pianificando di diminuire
ulteriormente nei prossimi mesi le forze americane. La loro speranza è che i
soldati statunitensi vengano rimpiazzati da nuove forze irachene e da un
afflusso di truppe alleate dal resto del mondo. Temiamo che si tratti di
un’illusione. Sembra improbabile che una qualsiasi forza irachena capace di
fornire sicurezza possa essere pronta entro la primavera. E per quanto riguarda
la comunità internazionale – non importa se non riusciremo mai a convincere
la Francia e altri paesi a contribuire in maniera seria. In realtà, i nostri
alleati europei non hanno così tante truppe da offrire.
E si considerino i possibili sfortunati effetti di affidare
l’incarico della sicurezza dell’Iraq a un mosaico di forze mal preparate e
provenienti da ogni parte del mondo. Ecco perché gli appelli dei membri del
Congresso a “internazionalizzare” le forze e a dare all’Onu un ruolo
preminente non sono d’aiuto, e non sono veramente pertinenti in questo
frangente. Il senatore Biden dice bene quando afferma che “abbiamo un signor
team laggiù, eppure gli manca qualsiasi cosa.” Ma sbaglia quando suggerisce
che una parte significativa della soluzione potrebbe essere
“internazionalizzare” l’operazione. E quando il repubblicano Mark Kirk
dice che “ogni peacekeeper internazionale in più è un’opportunità per
rimpiazzare un americano”, solleva false speranze nel popolo americano. Simili
appelli all’internazionalizzazione segnalano anche ai baathisti iracheni e
agli estremisti islamici una tendenza americana a tagliare e scappare. E’ vero
che, sfortunatamente, anche noi non abbiamo abbastanza truppe da offrire:
avremmmo dovuto iniziare a ricostruire il nostro esercito due anni fa. Ed è
vero che aumentare la dimensione delle nostre forze, sia in Iraq sia a livello
globale, non piace ai funzionari dell’Amministrazione. E’ tempo di ingoiare
il rospo e pagarne il prezzo.
La prossima primavera, se il disastro incombe, sarà più difficile. E potrebbe
essere troppo tardi. Dove sono i soldi?
Vale lo stesso per le risorse finanziarie che l’Amministrazione ha cercato per la ricostruzione dell’Iraq. E’ semplicemente inconcepibile che la debilitante mancanza di corrente persista in Iraq, portando l’opinione pubblica irachena contro gli Stati Uniti.
Questo è uno dei problemi che può essere risolto con i soldi necessari. E i soldi non sono stati ancora resi disponibili. Questo è solo l’esempio più fastidioso tra i tanti.
L’economia irachena ha bisogno di un apporto di assistenza, per costruire infrastrutture, per migliorare la vita quotidiana del popolo iracheno, per mettere un po’ di soldi nelle tasche degli iracheni in modo da trasformare il pessimismo in ottimismo.
C’è anche stata una sbalorditiva mancanza di assistenza democratica, in un
momento in cui, secondo un sondaggio del National Democratic Institute for
International Affairs, l’Iraq sta vivendo un’esplosione di attività
politica. Comprendiamo il timore dell’Amministrazione di chiedere al Congresso
i fondi necessari per l’Iraq. Il costo, che potrebbe aggirarsi attorno ai 60
miliardi di dollari, fornirà materiale a quegli opportunisti candidati
Democratici alle presidenziali che già si lamentano che i soldi spesi in Iraq
sarebbe stato meglio spenderli negli Stati Uniti.
Ma, ancora una volta, il momento di ingoiare il rospo è adesso, non fra sei
mesi quando l’Iraq sarà in crisi e la stagione della campagna americana
sottotono.
Se la Rice e gli altri sono seri nel voler costruire un “impegno generazionale” equivalente a quello che seguì la Seconda guerra mondiale, allora questo è il momento necessario per pagare. Dov’è il personale?
L’esercito americano non è il solo ad affrontare una carenza di personale. Tutti coloro che ritornano dall’Iraq osservano anche la sorprendente mancanza di civili americani. Finora solo un gruppetto di dipendenti del Dipartimento di Stato è al lavoro in Iraq. Ne deduciamo che il Dipartimento di Stato ha avuto difficoltà nell’attirare volontari per lavorare in Iraq. E’ comprensibile. Ma è inaccettabile.
Se l’Amministrazione è seria nel tracciare un’analogia con i primi anni della Guerra fredda dovrebbe ricordarsi che l’intero governo degli Stati Uniti si orientò allora verso la nuova sfida. E’ necessario fare lo stesso ora. L’Amministrazione deve insistere affinché il Dipartimento di Stato faccia il proprio dovere. Infatti, è necessario mettere in campo diplomatici e funzionari di Stato, assumere lavoratori a contratto, mobilizzare persone e risorse con urgenza e seriamente. L’ordinaria amministrazione non è accettabile. Portare a compimento il lavoro in Iraq è la nostra più alta priorità, e il nostro governo deve trattare la cosa come tale. Questi sono i principali problemi sui cui l’Amministrazione Bush si deve concentrare. Il successo in Iraq è alla nostra portata.
Ma ci sono dei motivi per temere che seguendo l’attuale traiettoria, non ci
arriveremo. Il presidente sa che un fallimento in Iraq è intollerabile. Ora è
il momento di agire in modo deciso per prevenirlo.
© The Weekly Standard - Il Foglio traduzione di Rolla Scolari
Progetto per un Nuovo Secolo Americano
http://www.disinformazione.it/nuovosecoloamericano.htm
Tratto dal sito www.newamericancentury.org 3 giugno 1997
Si ringrazia per la traduzione Bruno Stella
Direttori
del progetto Nuovo
obiettivo: Iran? http://www.asslimes.com/documenti/mondialismo/nuovoobiettivo.htm WASHINGTON,
5 maggio (IPS) – Con I funzionari di Washington che parlano in modo oscuro
di “agenti iraniani” che attraverso il confine dell’Iraq per fomentare
problemi all’occupazione USA, uno dei principali strateghi
neo-conservatori ha detto lunedì che gli Stati Uniti sono pronti ad una
“lotta mortale” con Teheran ed ha esposto all’Amministrazione del
presidente George W. Bush l’urgenza di
"intraprendere la lotta contro l’Iran'', tra le altre misure,
attraverso ''operazioni coperte''. Copyright
© 2003 IPS-Inter Press Service. All rights reserved. La
notte dopo http://members.xoom.virgilio.it/infocontro/SocFor2003/NoWar438.htm Uri Avnery (Uri Avnery è
un giornalista israeliano. I suoi saggi sono contenuti anche in
"The Other Israel: Voices of Refuses and Dissent")
Liberazione 22 aprile 2003
Oggi è di moda parlare del "giorno dopo".
Ma dobbiamo parlare piuttosto della notte dopo. Al termine dei
combattimenti in Iraq il mondo si troverà ad affrontare due elementi
decisivi. Primo: l’immensa superiorità militare statunitense in grado
di sconfiggere qualsiasi popolo del mondo, per quanto sia coraggioso.
Secondo: il piccolo gruppo che ha deciso di iniziare questa guerra,
costituita da un’alleanza di fondamentalisti cristiani e di ebrei
neoconservatori, può cantare vittoria e d’ora in poi controllerà
Washington quasi senza limiti. La combinazione di questi due elementi
costituisce un pericolo per il pianeta, specialmente per il Mediooriente,
per i popoli arabi e per il futuro di Israele. Questa alleanza, infatti,
è nemica delle mediazioni dei conflitti, nemica dei governi arabi,
nemica del popolo palestinese e soprattutto nemica degli israeliani
favorevoli alla pace.
Non sogna soltanto un impero statunitense, nello
stile di quello romano, ma anche un mini-impero israeliano, sotto il
controllo della estrema destra e dei coloni. Vuol cambiare i governi in
tutti i paesi arabi. Causerà un caos permanente nella regione le cui
conseguenze sono impossibili da prevedere. Il suo universo di
riferimento consiste in un insieme di fervore biologico e di rozzi
interessi materiali, un patriottismo statunitense esasperato e un
sionismo di estrema destra. E’ un miscuglio pericoloso.
C’è in questo, qualcosa di Ariel Sharon, un uomo
che ha sempre coltivato piani grandiosi per stravolgere la regione,
personalmente caratterizzato da un’immaginazione creativa, uno
sciovinismo fuori da ogni controllo e una fiducia primitiva nell’uso
brutale della forza.
Chi sono i vincitori?
Sono i cosiddetti neocons, o neoconservatori.
Un gruppo compatto, i cui membri sono quasi tutti ebrei. Occupano
posizioni chiave nell’amministrazione Bush, così come nei gruppi
strategici che giocano un ruolo importante nella formulazione della
politica statunitense e nelle pagine d’opinione dei giornali
influenti.
Per molti anni questo è stato un gruppo marginale
che ha promosso un programma di estrema destra in tutti i settori. Hanno
lottato contro l’aborto, contro l’omosessualità, contro la
pornografia e le droghe. Quando Binyamin Netanyahu arriva al potere in
Israele, offrono i propri consigli su come combattere gli arabi. La loro
grande occasione giunge però col crollo delle Torri Gemelle.
L’opinione pubblica e i politici statunitensi erano in uno stato di
choc, completamente disorientati, incapaci di comprendere un mondo
stravolto da un giorno all’altro. I neocons sono l’unico
gruppo ad avere a portata di mano una spiegazione e una soluzione. Solo
nove giorni dopo l’attentato, William Kristol (figlio del fondatore
del gruppo, Irving Kristol) pubblicò una lettera aperta al presidente
Bush, dichiarando che non sarebbe stato sufficiente annientare la rete
di Osama Bin Laden, ma che era ormai un imperativo «cacciare Saddam
Hussein dal potere» e «organizzare rappresaglie» contro la Siria e
l’Iran per il loro appoggio agli Hezbollah.
La lettera aperta fu pubblicata dal Weekly
Standard, fondato da Kristol con il denaro del magnate di
ultradestra della stampa Rupert Murdock, che aveva donato 10 milioni di
dollari alla causa.
Richard Perle, in questo quadro, è il personaggio
principale. Fino a poco tempo prima era stato presidente dell’Ufficio
politico di Difesa, del Defense Department, del quale fanno parte anche
Eliot Cohen e Devon Cross. Perle è uno dei direttori del Gerusalem
Post attualmente in mano a sionisti di estrema destra. Recentemente
si è visto obbligato a rinunciare al suo incarico nel dipartimento di
Difesa perché si è saputo che una corporazione privata gli aveva
promesso quasi un milione di dollari per poter contare sulla sua
influenza nell’amministrazione.
Quella lettera aperta, in realtà, costituì
l’inizio della guerra contro l’Iraq. Fu ricevuta con entusiasmo
dall’amministrazione Bush, dove alcuni membri del gruppo erano già
fermamente insediati in posizioni di primo piano. Paul Wolfowitz, padre
della guerra, è il numero due nel dipartimento della Difesa, dove un
altro amico di Perle, Douglas Feith, dirige il Consiglio di
pianificazione del Pentagono.
John Bolton è sottosegretario del dipartimento di
Stato. Eliot Abrams, responsabile del Medioriente nel Consiglio
Nazionale di Sicurezza, era coinvolto nello scandalo
Iran-Contras-Israele. Il principale eroe dello scandalo, Oliver North,
fa parte dell’istituto ebraico delle questioni di sicurezza nazionale,
insieme a Michael Ledeen, altro protagonista della storia. E’
favorevole alla guerra totale non solo contro l’Iraq, ma anche contro
altri nemici di Israele: Iran, Siria, Arabia Saudita e l’Autorità
palestinese. Dov Zakheim è un componente del Dipartimento della difesa.
La maggior parte di queste persone, insieme al vicepresidente Dick
Cheney e al segretario della Difesa, Donald Rumsfeld, sono associate al
"Progetto per un Nuovo Secolo Americano", che ha
pubblicato un Libro bianco nel 2002, con l’obiettivo di «preservare e
affermare la pace statunitense» intendendo con queste espressioni il
controllo Usa del mondo.
Il generale sionista
L’uomo che simboleggia la vittoria è il generale
Jay Garner, appena nominato capo dell’amministrazione civile
dell’Iraq. Non è un generale anonimo scelto casualmente. Garner è il
partner ideologico di Paul Wolfowitz e dei neocons.
Due anni fa ha firmato, insieme ad altri 26
ufficiali, una petizione organizzata dall’Istituto Ebraico per gli
Affari di Sicurezza Nazionale, lodando l’esercito di Israele per «la
sua notevole prudenza di fronte alla violenza letale orchestrata dalla
leadership dell’Autorità palestinese», decisamente una novità per
le forze israeliane che cercano la pace. Ha anche dichiarato che «un’Israele
forte è un fattore sul quale possono contare gli strateghi militari e i
dirigenti politici statunitensi».
Nella prima guerra del Golfo scelse l’utilizzo dei
missili Patriot, scelta rivelatasi sbagliata. Dopo aver lasciato
l’esercito nel ’97 si è convertito, senza sorprendere nessuno, in
consulente della Difesa specializzato nell’uso di missili. Si disse
che aveva conseguito contratti con il Pentagono assolutamente fuori
mercato. Quest’anno ha ottenuto un contratto di 1500 milioni di
dollari, nonché un contratto per la costruzione del sistema Patriot.
Non ci può essere, quindi, un candidato migliore per il ruolo di capo
dell’amministrazione civile in Iraq, visto che c’è da decidere a
chi affidare contratti per la ricostruzione che valgono miliardi di
dollari e che saranno pagati con il petrolio iracheno.
Una nuova Balfour
L’ideologia di questo gruppo, che punta a un impero
mondiale degli Usa, ma anche a una Grande Israele, ricorda un fatto
storico.
La dichiarazione di Balfour del 1917 che promise agli
ebrei una patria in Palestina, ebbe due genitori. La madre fu il
sionismo cristiano (tra i cui aderenti si contavano illustri statisti
come Lord Palmerston e Lord Shaftesbury, molto prima della fondazione
del movimento sionista), il padre è stato l’imperialismo britannico.
L’idea sionista permise ai britannici di cacciare i loro rivali
francesi e di prendere possesso della Palestina, necessaria a proteggere
il canale di Suez nonché la rotta diretta verso l’India. Ora succede
nuovamente la stessa cosa. L’anno passato Richard Perle ha organizzato
un incontro pubblico in cui uno dei relatori propose la guerra non solo
contro l’Iraq, ma anche contro l’Arabia Saudita e l’Egitto per
assicurarsi il cuore del petrolio mondiale. L’Iraq, affermò, era solo
l’inizio. Una delle giustificazioni proposte per questo piano era la
necessità di difendere Israele.
Il nostro futuro
All’apparenza tutto favorisce Israele. Gli Usa
controllano il mondo, noi controlliamo gli Stati Uniti. Mai prima
d’ora gli ebrei hanno esercitato un’influenza comparabile nel centro
del potere mondiale.
Questa tendenza mi preoccupa, sembriamo un giocatore
d’azzardo che punta tutto il suo denaro e il suo futuro su un solo
cavallo. Un buon cavallo, certo, un cavallo senza rivali al momento, ma
comunque un solo cavallo.
I neocons provocheranno un lungo periodo di
caos nel mondo arabo-musulmano. La guerra in Iraq ha già mostrato che
la loro comprensione della realtà araba è molto limitata. Le loro
supposizioni politiche non hanno resistito alla prova dei fatti. Ma solo
l’uso della forza bruta ha portato a termine la loro impresa.
Un giorno gli statunitensi torneranno a casa, ma noi
rimarremo qua. Dobbiamo convivere con i popoli arabi, il caos nel mondo
arabo mette in pericolo il nostro futuro.
Wolfowitz e compagnia potranno sognare un Medioriente
democratico, liberale, sionista che adora gli Usa, ma il risultato delle
loro avventure rischia di concretizzarsi in una regione fanatica e
fondamentalista che minaccerà la nostra esistenza. L’alleanza tra neocons
e fondamentalisti cristiani può generare forze antagoniste a
Washington. E se Bush verrà sconfitto alle prossime elezioni, come lo
fu suo padre dopo la vittoria nella prima guerra del Golfo, i piani
dell’alleanza saranno stravolti.
La Bibbia ci parla dei re della Giudea che si
basarono sulla potenza mondiale di allora, l’Egitto. Non si resero
conto della crescita delle forze orientali, dell’Assiria e della
Babilonia. Un generale assiro disse al re di Giudea: «Confidi in queste
canne, confidi nell’Egitto. Se qualcuno si appoggerà su di loro, gli
si conficcheranno nella mano e gliela trapasseranno» (2° dei rei,
18,21)
Bush e il suo gruppo di neoconservatori non sono
esili canne. Lontano dall’esserlo, formano invece un bastone molto
forte. Basterà per appoggiare su di esso tutto il nostro futuro?
La
vecchia illusione dei media liberal http://www.italian.it/isf/home614.htm di Eric Alterman * 11 aprile 2003 Fonte:
Le Monde Diplomatique
Elliott Abrams
Gary Bauer
William J. Bennett (Segretario
all'istruzione durante la presidenza di Reagan)
Jeb Bush (Repubblicano, governatore e
fratello di George W. Bush)
Dick Cheney (Vicepresidente Stati Uniti)
Eliot A. Cohen (Analista e
commentatore militare della Johns Hopkins University)
Midge Decter (Autore, editore e
membro del Hoover Institution Board Overseers)
Paula Dobriansky (Sottosegretario di
Stato per gli affari globali)
Steve Forbes
Aaron Friedberg (Professore di scienze
politiche a Princeton)
Francis Fukuyama (Docente di Storia)
Frank Gaffney (Presidente del Centro
per le Politiche sulla Sicurezza)
Fred C. Ikle (Ex ministro della
Difesa)
Donald Kagan (Yale University)
Zalmay Khalilzad (Ambasciatore
speciale di Bush)
Lewis Libby (Capo dello staff di
Cheney)
Norman Podhoretz (Neoconservatore ed
editore di «Commentary»)
Dan Quayle (Vicepresidente Bush)
Peter W. Rodman (Vice di Rumsfeld)
Stephen
P. Rosen
Henry
S. Rowen (Stanford
University)
Donald Rumsfeld (Segretario
della Difesa)
Vin Weber (dirigente del centro di
ricerche conservatore Empower America)
George
Weigel
Paul Wolfowitz (Vice
Segretario di Stato alla difesa)
William
Kristol,
Presidente
Robert
Kagan
Bruce
P. Jackson
Lewis
E. Lehrman
Mark
Gerson
Staff
del progetto
Gary
Schmitt,
Executive Director
Daniel
McKivergan,
Deputy Director
Ellen
Bork,
Deputy Director
Thomas
Donnelly,
Senior Fellow
Reuel
Marc Gerecht,
Senior Fellow, Director of the Middle East Initiative
Christopher
Maletz,
Assistant Director
Analisi di Jim Lobe
Traduzione dall'inglese
per l'Associazione Limes
a cura di Belgicus
In realtà, l'idea che i media siano liberal è assolutamente un'invenzione.
Anche se la maggior parte degli elettori di destra ci crede in buona fede, i
più maliziosi sanno che fare le vittime costituisce un buon mezzo per
comunicare le proprie idee - o magari per impedire ai propri avversari di
farlo. A volte i conservatori onesti lo ammettono. Richard Bond, quando era
presidente del partito repubblicano, protestò all'epoca delle elezioni
presidenziali del 1992 dicendo: «credo che tutti sappiano chi i media si
augurino vinca questo scrutinio - e non si tratta di George Bush (2)».
Lo stesso Bond fece tuttavia notare, durante le stesse consultazioni, che «da
parte nostra [quando critichiamo i media] c'è un po' di strategia. Se
osservate un qualsiasi allenatore durante una partita vedrete che tenta
sempre di fare pressione sull'arbitro perché questo conceda alla sua
squadra un po' di più di quanto non sia permesso (3)».
William Kristol, uno tra i più influenti pensatori e propagandisti
neoconservatori ha confessato anch'egli: «Lo ammetto. I media di sinistra
non sono mai stati molto potenti e lo sdegno sull'argomento ha soprattutto
permesso ai conservatori trovare una scusa alle proprie sconfitte». Ciò
nonostante Kristol, mentre invitava ad abbonarsi a un periodico finanziato
da Rupert Murdoch (le cui opinioni politiche non sono un segreto per nessuno
(4)) si è ugualmente lamentato: «Il
problema con la politica e il modo in cui ne parlano i media, è che essi
tendono troppo a sinistra. Difendono le sconfitte della sinistra e
appoggiano i suoi candidati e le sue cause».
In uno studio pubblicato nel 1999 dalla rivista universitaria Communications
Research, quattro esperti hanno esaminato l'impiego dell'espressione «liberal
media» e hanno scoperto che il numero di americani che vede tendenze
liberal nei media è quadruplicato. Ma segni evidenti, raccolti e codificati
su un periodo di dodici anni, non corroborano affatto questa visione. La
conclusione? I consumatori di informazioni sono sensibili soprattutto «alla
crescente copertura delle accuse di favoritismo nei confronti della
sinistra, provenienti sempre di più da candidati e da rappresentanti eletti
del partito repubblicano (5)». Fox News e i
valori del presidente La destra fa pressione sugli arbitri. E funziona. Una
ragione per cui tanta gente, inclusi alcuni liberal, crede nel mito dei
media liberal è che non si rende conto di quanto estesi e influenti siano i
media conservatori rispetto ai media liberal esistenti. Di fatto, già
sommando la diffusione o la penetrazione di Fox News, delle pagine
editoriali del Wall Street Journal, del Weekly Standard, della National
Review, dell'American Spectator, di Human Events, dell'opinione dominante
dei commentatori, di Rush Limbaugh conduttore di programmi alla radio, e
dell'intero universo dei talk show radiofonici (6),
si ottiene una parte considerevole dei media. L'abilità di tali mezzi, così
profondamente di parte e spesso inaffidabili, nel modellare l'universo della
stampa nel suo insieme conferisce loro un grado di potere e un'influenza che
va al di là della propria pur considerevole diffusione.
Prendiamo il caso di Fox News. Quando il canale venne lanciato nel 1996, con
a capo Roger Ailes, responsabile della campagna elettorale (particolarmente
sporca) del 1988 di George H. Bush (7), i
conservatori si diedero un gran da fare per lodarlo. L'allora governatore
del Texas, George W. Bush, registrò un elogio promozionale del programma di
Tony Snow, ex collaboratore di suo padre alla Casa Bianca, in cui lodava il
suo «fortunato passaggio al giornalismo». L'orientamento a destra di Fox
News costituisce un valore incalcolabile per i conservatori. Non solo perché
li mobilita, ma anche perché fa scivolare ancora più a destra l'intero
sistema dell'informazione.
Nel novembre 2000, Fox News e il suo esperto elettorale John Ellis, cugino
di George W. Bush, ebbero un ruolo cruciale nel diffondere l'idea che in
Florida i giochi fossero conclusi. Ma il reclutamento di John Ellis da parte
di Fox News non era un caso isolato. Quando, poco prima delle elezioni, i
media scoprirono che Bush aveva nascosto una condanna per guida in stato di
ebbrezza (il tipo di argomento su cui i giornalisti normalmente si
precipitano...) Fox News si affidò al lavoro di un addetto stampa ansioso
di insabbiare una notizia compromettente. «Conta meno di una nota a fondo
pagina» disse uno dei commentatori, Morton Kondracke, democratico
neoconservatore.
«Una bazzecola» sostenne John Fund del Wall Street Journal. «Sì, sono
d'accordo, è una bazzecola», concluse nel corso della stessa trasmissione
Mara Liasson giornalista alla National Public Radio.
E il programma in questione preferì dedicarsi al tema scelto per il
contrattacco repubblicano: era stata l'équipe del candidato democratico
Albert Gore ad aver orchestrato la fuga di notizie. Tony Snow, senza la
minima prova, si spinse fino a dar credito alle «voci» sul coinvolgimento
dell'amministrazione Clinton nella vicenda, sostenendo che tutto ciò
avrebbe provocato a un aumento di simpatia per Bush. All'epoca degli
attacchi repubblicani contro il presidente Clinton, Fox News non aveva fatto
ricorso a quel tipo di sondaggi sull'esasperazione del pubblico americano
davanti all'accanimento dei parlamentari.
Su Fox News un favoritismo del genere è diventato la norma. Uno dei
commentatori di politica estera è l'ex presidente repubblicano della Camera
dei rappresentanti Newton Gingrich. Una discussione dedicata a Ronald Reagan
si può facilmente riassumere in un dialogo tra sei amici dell'ex presidente
degli Stati uniti o tra membri della sua amministrazione. Il trattamento
della guerra in Afghanistan da parte di Fox News non è sfuggito a questa
regola: il giornalista Geraldo Riveira, non contento di essersi recato sul
posto munito di un'arma augurandosi di uccidere bin Laden con le sue mani,
annunciò di trovarsi sul campo di una battaglia da cui distava più di
trecento chilometri.
Ailes, il direttore della stazione televisiva, non esitò dal canto suo a
offrire il suo parere a George W. Bush: «L'opinione pubblica americana è
disposta a mostrarsi paziente a condizione di avere la sicurezza che Bush
metterà in atto le misure più dure».
Anche la maggior parte dei giornalisti ha privilegiato il punto di vista «patriottico».
Si è quindi mostrata contemporaneamente favorevole all'esercito e ostile o
preoccupata di fronte a un nemico che non esitava a prendersela con i
giornalisti, a volte in maniera atroce (8). I
reporter sono per di più intimiditi da un'accusa, ereditata dalla guerra
del Vietnam, secondo cui sarebbero «anti-americani».
Nel caso della Fox News e della Cnn, sono stati anche esplicitamente
avvertiti di questo rischio...
Un punto di vista molto patriottico Un'accusa infondata, come dimostra un
semplice paragone tra i media americani, britannici ed europei nel
trattamento delle informazioni sulla guerra in Afghanistan. Il 30 dicembre
2001 trenta bombe americane cadono sul villaggio di Niazi Kala (chiamato
anche Qalaye Niaze) nell'est dell'Afghanistan e uccidono decine di civili.
La stampa britannica giudica importante la notizia. I titoli non danno adito
a equivoci: «Gli Stati uniti accusati di aver ucciso più di cento civili
durante un bombardamento» (The Guardian, 1¼ gennaio 2002); «Cento civili
uccisi da un bombardamento americano» (The Times, 1¼ gennaio 2002).
Contemporaneamente, il New York Times decide di titolare: «Un dirigente
afghano sostiene senza entusiasmo il bombardamento americano» (2 gennaio
2002). È necessario ricordare che il New York Times è uno dei bersagli
preferiti della destra conservatrice nelle accuse di anti-americanismo
rivolte alla stampa.
Fox News ha potuto distinguersi anche nel clima nazionalista del dopo 11
settembre 2001. I presentatori e i giornalisti di questa emittente la cui
audience media, ancora modesta (poco più di un milione di telespettatori),
ha recentemente sorpassato quella della Cnn, fanno a gara a chi insulta
meglio bin Laden e i suoi «sicari». I danni dei raid americani in
Afghanistan importano poco alla Fox.
«Siamo in guerra, è forse una notizia che della gente muoia?» ha spiegato
Brit Hume.
Nel caso dell'Iraq la stampa dimostra la stessa assenza di spirito critico.
Quando Hans Blix ha presentato il suo primo rapporto al Consiglio di
sicurezza delle Nazioni unite, il Washington Post ha ripreso la linea della
Casa bianca senza cambiarne una virgola. «Blix - spiega un editoriale - ha
parlato, con molta cautela, di una lista schiacciante di menzogne, omissioni
ed evasioni perpetrate dall'Iraq da quando il Consiglio ha adottato la
risoluzione 1441, il cui oggetto era offrire a Saddam Hussein una
"ultima possibilità" di rinunciare alle sue armi di distruzione
di massa. (...) Invece di cedere alle richieste degli ispettori e di offrire
all'Iraq un'altra possibilità, il Consiglio dovrebbe conformarsi alla
risoluzione che soltanto undici settimane fa ha adottato all'unanimità (9)».
Poco importa che non siano in molti al di fuori dell'amministrazione Bush ad
avere inteso così il rapporto di Blix.
Appena prima di far sapere che non si sarebbe candidato alla Casa bianca nel
2004 Albert Gore, in un'intervista al New York Observer, ha notato qualcosa
di evidente: «In questo paese ci sono voci istituzionali interamente nelle
mani del partito repubblicano (...) Fox News Network, Washington Times, Rush
Limbaugh... e tra queste voci molte vengono finanziate da miliardari
ultraconservatori che fanno affari con le amministrazioni repubblicane e il
resto dei media».
Un tale, banale, commento ha provocato ugualmente indignazione. Howard Kurtz
giornalista che si occupa di stampa al Washington Post e animatore
dell'unica trasmissione di critica dei media sulla Cnn, ha giudicato Gore un
semplice paranoico: «Sembra che se ne stia lì a piagnucolare.
Sempre che non voglia portare acqua al suo mulino, un po' come la destra
quando protesta contro la tendenza a proprio sfavore dei media».
Per poi concludere: «Gore dev'essere amareggiato per il fatto che il suo
libro non si venda così bene nonostante i miliardi di trasmissioni
televisive a cui ha partecipato insieme a sua moglie».
I media non possono, da soli, rendere ingovernabili gli Stati uniti
nell'ipotesi molto aleatoria in cui vincesse la sinistra democratica.
Possono però legittimare comportamenti poco democratici che andrebbero in
questo senso. Abbiamo già potuto osservarlo al momento della procedura di
impeachment contro il presidente Clinton. L'abbiamo osservato di nuovo al
momento dei conteggi e dei ri-conteggi delle schede che hanno seguito le
ultime elezioni presidenziali americane. La guerra certo non migliorerà
questa situazione.
note:
* Giornalista e autore di What Liberal Media? The Truth about Bias and the
News, Basic Books, 2003.
(1) David Broder Beyond the front
page, Simon and Schuster, New York, 1987.
(2) Al termine di un'elezione
triangolare, il padre dell'attuale presidente venne battuto dal democratico
William Clinton.
(3) The Washington Post, 20 agosto
1992.
(4)
Secondo me agisce in modo molto morale, molto corretto. (...) La cosa
migliore che potrebbe venir fuori da tutta questa storia per l'economia
mondiale sarebbe un barile di petrolio a venti dollari».
(Newsweek, 17 Febbraio 2002)
(5) «Elite Cues and Media Bias in
Presidential Campaigns: Explaining Public Perceptions of a Liberal Press»
Communications Research, Minnesota, n¼ 26, 1999.
(6) Si legga «La sinistra nel suo
ghetto, la destra alla radio», Le Monde diplomatique/il manifesto
(controllare), ottobre 1994.
(7) Si legga Serge Halimi «Dans
les bas-fonds de la campagne électorale americaine», Le Monde diplomatique,
dicembre 1988.
(8) Daniel Pearl del Wall Street
Journal fu così torturato e massacrato e la scena venne filmata dai suoi
boia. Daniel Pearl aveva tuttavia provato la sua indipendenza pubblicando
(con Robert Block) il 31 dicembre 1999 un'inchiesta sull'opera di
indottrinamento propagandistico della Nato durante la guerra del Kosovo.
(9) 28 gennaio 2003.
(Traduzione di P. B.)